lunedì 9 aprile 2012

Capitolo I. La fuga

L'albero si rivelò l'ostacolo più difficile della giornata.
Garhea osservò a lungo il brutto e marcio tronco occupare l'intera strada. Sapeva bene che l'unica alternativa per vincerlo era saltarlo, così si fece forza, prese aria e riuscì nell'intento con un balzo che a lei parve gigantesco.
Fu più semplice di quanto pensasse. Non fece in tempo a complimentarsi del successo ottenuto quando si accorse di aver regalato a un ramo dell'ormai vinto sfidante un pezzo della gonna.
Osservò il proprio vestito: lo strappo mostrava parte della piccola gamba destra conferendo all'intero abito un tono quasi selvaggio. Era una delle poche gonne che la vecchia Raya riusciva a permettere alla bambina; saperla guastata le avrebbe causato un immediato isterismo.
Garhea sapeva bene che lì si sarebbe limitata la cosa; Raya brontolava spesso ma non aveva mai alzato le mani contro di lei. La peggiore punizione finora ricevuta era stato il divieto di uscire per un giorno; un divieto poi ridottosi a metà giornata.
La troppa tolleranza di Raya aveva alimentato in Garhea i più detestabili difetti: in soli due anni, la fragile e introversa figlia di Shair era diventata un essere selvatico, aggressivo e arrogante.
Passava la maggior parte del tempo nei boschi a correre sugli alberi o a tentare di cacciare con l'arco da lei stessa costruito. Nonostante le prede diventassero ogni giorno più rare, Garhea tesseva quotidianamente le lodi della propria invenzione. Era un arco che a stento si poteva definire tale: un ramo piegato ai cui estremi era stata legata una corda molto fine. I dardi altri non erano che legnetti appuntiti dopo un lungo lavoro manuale.
Quel pomeriggio la caccia era stata piuttosto misera: un'incauta arvicola l'unico trofeo. L'animaletto era stato appeso alla cintura del vestito nel vano tentativo di imitare i veri cacciatori, quelli che Garhea vedeva qualche volta lungo il sentiero.
Il trofeo l'aveva resa di ottimo umore. Una volta giunta a casa lo avrebbe esibito davanti alla scettica Raya e lei sarebbe stata costretta ad ammettere ancora una volta quanto fosse stata abile.
Osservò un'ultima volta la preda: a differenza del vestito era rimasta immune al salto. Si lasciò sfuggire un sorriso e riprese il cammino verso casa.
Trovò Raya sulla porta, come sempre a braccia incrociate e con il brontolio pronto a partire. Decise di esibire il topolino sfoderando un sorriso trionfante.
“Sono la più grande cacciatrice del bosco!”
Lo sguardo di Raya poteva già essere una risposta, ma la vecchia parlò.
“I lupi t'invidiano piccola; un giorno busseranno alla porta per chiederti qualche lezione!”
Garhea si accorse del sarcasmo ma preferì non farci caso. Trotterellò verso la donna continuando a mantenere quel sorrisetto arrogante sul volto. “E io gli dirò di andarsene!” affermò una volta giunta alla soglia. I suoi grandi occhi azzurri incontrarono quelli grigi della vecchia. Questa fece per risponderle ma lo sguardo si spostò sul vestito. E fu il caos. Le braccia cessarono di essere incrociate per andare a rifugiarsi nei pochi capelli rimasti. “Garhea il vestito! Il vestito! Garhea era l'unica cosa passabile che avevi! Garhea per tutti gli dei...”
Ma la piccola era già sgusciata all'interno della casa. Raya seguì i suoi spostamenti con lo sguardo evitando di concentrarsi troppo sullo strappo dell'abito faticosamente comprato. La diretta proprietaria non sembrava curarsene affatto, anzi, continuava a piroettare per le stanze perdendo talvolta dai capelli foglie solitarie o rametti. Se un tempo erano stati biondi, lunghi e avvolti in morbidi boccoli, ora erano sporchi, ribelli e pieni di nodi. Raya aveva provato a sistemarglieli ma la furia della piccola e i morsi l'avevano presto fatta desistere. Ancora una volta lasciò che il sospiro facesse scemare la disperazione: più si arrabbiava con la bambina, più le cose peggioravano. “Sistemati i capelli e prendi posto a tavola” bofonchiò raccogliendo stancamente una foglia secca caduta da quel crine leonino. La tavola era apparecchiata in modo fin troppo sobrio: due ciotole in legno colme di riso, due boccali, una brocca d'acqua e del pane nero.
“Non ho fame del tuo cibo.”. Garhea guardò di sottecchi la vecchia ma prese comunque posto. Nonostante gli otto anni continuava a restare una bambina piccola di statura e molto esile, quasi malaticcia. Eppure di energia ne aveva da vendere.
“Guarda un po' il mio cibo è l'unico cibo.”
“No, io ho l'arvicola!”
“E allora mangia la tua arvicola!”. L'esasperazione della donna riuscì a terminare la discussione per qualche istante. Garhea fece per riprendere ma un rumore di zoccoli destò l'attenzione di entrambe. Sembravano molti, e dalle voci non potevano che essere soldati o mercenari.
Entrambi persone poco gradite.
Garhea provò a parlare ma Raya la zittì alzando rapidamente la mano. “Zitta.” aggiunse senza staccare gli occhi dalla porta. Non pareva affatto tranquilla. Fuori gli uomini iniziavano ad avvicinarsi all'entrata. Spostò un solo istante gli occhi verso Garhea. “Nasconditi. Dove non so. E non uscire per nessuna ragione al mondo.”. Il tono cercava di essere fermo ma la bambina intuì bene il tremore nascosto. Fece per obiettare ma Raya la precedette: “Vattene dannazione! Ascoltami per una buona volta!”. Ben sapendo di avere poche alternative e convinta dal tono spaventato di Raya, Garhea scese dalla sedia con un salto e raggiunse la stanza da letto nonché ultima camera della casa. Nel frattempo qualcuno aveva già bussato sonoramente alla porta. In preda a un terrore via via crescente la piccola finì con il nascondersi sotto il letto. Lo faceva spesso quando combinava qualche disastro o solo per il gusto di far spaventare la povera Raya. Il nascondiglio era piccolo e stretto ma sfruttando il piccolo corpo riuscì a infilarsi senza problemi nello spazio tra il materasso e il legno del letto.
Nell'altra stanza gli uomini erano entrati e avevano iniziato a parlare con Raya. Garhea cercò di ascoltare quanto avevano da dire.
“Stiamo cercando una bambina.” disse uno degli uomini, probabilmente il capo. Aveva una voce molto roca e bassa che non lasciava presagire nulla di buono. Sentì i suoi piedi muovere qualche passo e l'elsa della sua spada sbattere su quella che doveva essere stata una sorta di rudimentale armatura.
Raya non impiegò molto a rispondere. “State cercando nel posto sbagliato. In questa orribile casa vive solo una vecchia donna. Non ho tempo per i bambini.”. Qualcuno si mosse, forse un altro uomo. “Menti donna, sappiamo che lei è qui.” la voce di questi era più stridula, l'esatto contrario di quella del presunto comandante. Altri passi, altro acciaio tintinnante. Garhea non aveva mai udito un suono tanto sinistro.
“Continuo a non capire di chi state parlando. Di bambini ne sono passati in questa casa, ma è stato molto tempo fa. Ora sono cresciuti quanto basta per dimenticarsi di me.”
Si chiese come Raya riuscisse a restare calma nonostante la situazione. La voce della vecchia era burbera come sempre, quasi disinteressata. Seguì un breve momento di silenzio nel quale la stessa Garhea credette che tutto fosse finito. S'immaginò già i cavalieri tornare dai propri destrieri e scomparire per sempre dalla brutta casetta che in fondo amava. Lei sarebbe corsa da Raya e, per un volta, l'avrebbe anche abbracciata. L'anziana donna non le aveva mai prestato notevoli attenzioni né Garhea provava grande interesse per lei, eppure entrambe sapevano bene di avere solo l'altra come unica compagnia.
Accadde tutto in un attimo. Sentì dei passi, dei movimenti bruschi, una sedia cadere e la brocca frantumarsi a terra. Qualcuno era stato buttato sul tavolo. Garhea ebbe la conferma di chi fosse dopo aver udito un tenue gemito di dolore. Strinse il labbro fra i denti finché non iniziò a sanguinare. Tutti i muscoli del corpo erano tesi e pronti a scattare, ma non si mosse. Doveva obbedire a Raya, doveva restare ferma. Invisibile.
“Te lo dico un'ultima volta, vecchia. Dicci dove si trova la piccola bastarda.”
Quando sentì l'uomo estrarre la spada fu sul punto di urlare. Cercavano lei, perché coinvolgere Raya? Si tappò la bocca con una mano. Zitta, doveva restare zitta. Alcune lacrime riuscirono involontariamente a scenderle sul volto, così come involontariamente il respiro iniziò ad accelerare.
Gli altri uomini sembravano essersi ammutoliti. Qualcuno a volte si muoveva facendo tintinnare l'arma. Ombre nere pronte ad aspettare il comando del proprio capo.
Un secondo gemito interruppe quel breve attimo di silenzio.
Forte, doveva essere forte.
“...È andata a sud...è partita stamattina all'alba...l'ho cacciata io stessa...”. Non c'era più freddezza in quella voce di bugiarda, solo tanto dolore e tanta paura. L'uomo imprecò sottovoce, qualcuno tra i tanti si mosse indispettito. Forse era stato quello dalla voce stridula.
Poi accadde.
Sentì la lama muoversi e subito dopo quel suono che Garhea giurò di non dimenticare mai.
La voce della morte.
Raya gorgogliò qualcosa e cadde pesantemente a terra. L'odore del sangue fresco non impiegò molto a diffondersi in quelle due piccole stanze. Ormai in preda al terrore, Garhea riuscì appena a reprimere un urlo e a nascondere meglio il volto umido di lacrime. Non aveva mai tremato così tanto. I soldati intanto si erano destati come se risvegliati da quel turbido spettacolo.
“Dobbiamo fidarci?”
“Non lo so. Perlustrate la casa da cima a fondo.”
A parlare erano stati i due uomini, quello dalla voce stridula e l'assassino di Raya. Dopo aver udito le direttive gli altri guerrieri iniziarono a muoversi per tutte e due le stanze. Erano cinque in totale, cinque uomini armati contro una bambina di otto anni. Garhea sapeva bene di avere poche speranze.
Due di loro entrarono nella camera. Entrambi erano molto alti e portavano l'armatura. Garhea non riuscì a guardare altro di loro dal basso del pavimento, ma suppose fossero molto giovani. Si muovevano veloci e, come gli altri, stavano mettendo a soqquadro l'intera dimora.
Buttarono giù un piccolo comodino, aprirono un vecchio baule di vestiti e, infine, uno si diresse verso il letto. Non sarebbe stato difficile alzare il materasso di paglia e piume; a volte riusciva la stessa bambina.
Sentì l'uomo prenderne un lato. Bastava un semplice colpo per tirarlo totalmente via. Garhea chiuse gli occhi. S'immaginò il volto del soldato che aveva ucciso Raya, grosso e sorridente nonostante il misfatto compiuto. Immaginò la spada ancora insanguinata calare sul suo esile corpo e, in quell'istante, gli ultimi bricioli di sicurezza caddero definitivamente.
L'uomo alzò il materasso.
La trovò raggomitolata su se stessa. Garhea fece appena in tempo ad alzare lo sguardo verso il suo assalitore: aveva un volto molto giovane e bello, gli occhi erano azzurri come i suoi e i capelli castani. Portava una leggera barba castana che tentava di rendere il volto più adulto, ma non poteva questo avere più di vent'anni.
Erano passati ben due anni ma Garhea non aveva mai dimenticato il volto di suo padre.
L'uomo che aveva sempre amato, che la faceva correre sul pony nei verdi prati della landa, lui che di notte le raccontava le favole su draghi e principesse...lui, ora, le stava dando la caccia.
Non fece in tempo a muovere un solo muscolo che si ritrovò nuovamente il materasso addosso.
“Qui non c'è niente.”
Lapidario, freddo; un tono che Garhea non aveva mai conosciuto. L'altro uomo, probabilmente distratto, si limitò a mugugnare qualcosa e ad abbandonare la stanza. Suo padre, invece, restò per qualche minuto. Avrebbe voluto parlargli, abbracciarlo, baciarlo, ma sapeva che non era possibile. Qualora l'avesse fatto si sarebbe trovata sgozzata al fianco di Raya o portata chissà dove.
Vittima di quella situazione così insensata e dei suoi stessi sentimenti, la bambina giurò a sé stessa di tacere. Ora che sapeva dove si trovava, suo padre sarebbe certamente tornato a prenderla.
Anche sua madre sapeva ma non era tornata. E gli anni trascorsi erano ormai due. Ancora una volta cercò di non pensarci. Non doveva pensare a niente, non in quegli attimi tanto delicati.
“Vai verso nord. Vai a Glenstone.” fu questo il sussurro di suo padre, debole e quasi impercettibile.
Nell'altra stanza il comandante aveva già fatto cenno ai suoi uomini di ritirarsi. Alcuni erano già sui cavalli. Garhea tentò di rispondere ma suo padre abbandonò rapidamente la stanza. Si aggiunse agli altri soldati ed uscì dalla casa silenzioso com'era apparso.
Il comandante fu l'ultimo a varcare la porta. “Andiamo verso sud come ha detto quella stupida vecchia. Se è partita questa mattina non dev'essere troppo lontana.” disse ai suoi uomini, poi salì sul proprio destriero e lo lanciò al galoppo verso il sentiero.
Quando il suono degli zoccoli dei cavalli fu ormai un eco lontano, Garhea scoppiò finalmente a piangere.

venerdì 6 aprile 2012

Prologo-L'addio

Il cavallo terminò finalmente il sentiero. Faceva freddo, persino l'animale sembrava soffrirlo nonostante la spessa bardatura. Fiato caldo usciva dalle sue narici per andarsi poi a disperdere nell'aria fredda. Sembrava quasi il fumo di uno di quei draghi delle leggende.
Osservò e ascoltò quel respirare finché non sentì gli occhi e la testa diventare pesanti.
Si riscosse: non era quello il momento di riposare. L'aria gelida penetrava ovunque costringendola a coprirsi di continuo; sembrava davvero impossibile sfuggire a quella morsa letale.
“Non temere, manca poco...”
La calma voce di sua madre riuscì a tranquillizzarla. Alzò il piccolo volto guardandola per qualche istante, poi, vittima delle sferzate, fu costretta a nasconderlo nuovamente nel piccolo mantello donatole. Da quel che era riuscita a scorgere, la donna pareva a suo agio: il suo volto era tranquillo, rilassato, come se non temesse il rigido clima. Gli occhi dorati restavano proiettati verso il sentiero; nemmeno una volta si rivolsero altrove. Occhi di miele, diceva suo padre, che ben pochi avevano. In effetti era un colore strano quello dell'iride: una specie di marrone ambrato simile a quello delle leonesse delle Terre Orientali.
Ed era proprio 'La Leonessa' l'appellativo che le avevano attribuito i fratelli della Congrega.
Non solo per gli occhi, ma anche per i lunghi capelli biondi e il volto felino. Bellissimo quest'ultimo solo dal lato destro; il sinistro il più delle volte restava coperto da un apposito rialzo del mantello perché orrendamente sfregiato da un lungo graffio.
A lei non faceva paura quel graffio. Eppure sua madre continuava a volerlo tenere nascosto a tutti. Forse era proprio lei ad esserne terrorizzata. Non tanto dallo sfregio quanto, piuttosto, dal passato che esso conservava.
Il cavallo si fermò interrompendo l'apice quei numerosi ricordi. La donna passò le redini alla mano destra, sfilò i piedi dalle staffe e scese dall'animale con un movimento fluido e sicuro. Poco dopo allungò le braccia e fece scendere pure lei. Sentì la neve inumidirle subito le piccole scarpine di cuoio e le gambe formicolare a causa della lunga posizione assunta, ma cercò di non farci troppo caso. Doveva comportarsi da persona forte, così le aveva detto sua madre.
Questa dopo aver legato l'animale a un albero la prese per mano e la condusse oltre il sentiero, dove l'attendeva una casetta piccola e sporca, probabilmente abbandonata. Non provò a farle domande; sapeva che non avrebbe ricevuto nessuna risposta.
Da quando erano partite la Leonessa era rimasta più taciturna del solito. Le sue uniche affermazioni o domande erano scontate, quasi irritanti. Le aveva chiesto se stava bene, se aveva fame o sonno. Le aveva detto di tenere duro, di stare coperta e di comportarsi bene. Lei avrebbe voluto piangere ma questo l'avrebbe fatta notevolmente arrabbiare, così restò zitta e seguì diligentemente il percorso.
Ad attenderle, alla soglia della brutta casupola, c'era una vecchia donna. Era vestita nel modo più povero che avesse mai visto; ogni parte della sporca tunica che portava era stata corretta da una toppa. Indossava anche una cuffietta che un tempo doveva essere stata bianca e che ora invece appariva giallo pallido. Sotto di questa, corti e sporchi capelli grigi non si degnavano di nascondere un volto ancora più brutto del vestito. Brufoli e rughe, questi gli unici due elementi a comporlo.
La vecchia continuò a osservare sia lei sia sua madre senza muovere un muscolo. Aveva le braccia incrociate e l'espressione decisamente scocciata. Quando arrivarono a poca distanza dall'entrata della casupola sentì sua madre parlare. Il tono era freddo e insensibile, quello che solitamente usava con i suoi sottoposti.
“Suppongo di essere puntuale.”
“Lo sei eccome” sputacchiò la vecchia rivelando un'orrenda fila di denti gialli quanto la cuffietta. Diede uno sguardo rapido anche a lei poi aggiunse: “È dunque questa qui?”
Sua madre annuì.
“Ah, pensavo fosse più grandicella...mi hai portato un cucciolo ancora sporco di latte!”
“Sa cavarsela quanto basta; non ti creerà problemi.”
La vecchia donna brontolò ancora qualcosa, poi si voltò e fece ritorno all'interno della casa.
Lei continuava a non capire. Chi era? E perché quelle parole? Guardò sua madre e stavolta gli sguardi s'incrociarono. Vide i chiari occhi ambrati assumere una luce mai vista. Passarono un paio di istanti prima che sua madre si decidesse a parlare. Sembrava costarle un'enorme fatica, eppure cercava in tutti i modi di non darlo a vedere.
“Ascolta Garhea, la donna che hai appena visto ti terrà al sicuro per un breve periodo di tempo. Tu dovrai obbedirle senza discutere. E non farla arrabbiare. Qualsiasi cosa accada verrà prontamente a riferirmelo. Sono stata chiara?”
Il tono era stato freddo e veloce, quasi stesse dettando direttive militari agli uomini della sua congrega. Di solito parlava così quando era di cattivo umore o quando Garhea aveva combinato qualcosa. La bambina deglutì e, finalmente, parlò.
“Mamma ma lei puzza ed è brutta...non ci voglio stare con lei...”
Vide sua madre sorridere per un brevissimo istante, ma nessuna felicità si nascondeva in quella mossa; tutt'altro. Fece passare una mano sulla sua piccola testa bionda coperta dal cappuccio. E ancora, la guardò.
“Garhea devi farlo per me e per tuo padre. Questo è il posto più sicuro per te. Non dovrai starci molto, solo qualche giorno. Poi tornerò a prenderti e tutto finirà.”
Garhea non riuscì a staccare i chiari occhi azzurri, dono di suo padre, da quelli della madre. Sentì una lacrima scenderle sulla guancia, poi un'altra e un'altra ancora. La donna riuscì a raccoglierle tutte con un dolce gesto della mano. Si chinò un poco sulla bambina e continuò a parlarle con un tono ormai bassissimo e un sorriso sempre più faticoso sul lato del volto visibile.
“Promettimelo Garhea. Promettimi che non fuggirai, promettimi che mi aspetterai.”
Ancora non riusciva a capire niente di tutta quella storia. Nata da appena 6 anni e già costretta a separarsi dalle sole creature che amava. Per cosa? Per un motivo e lei sconosciuto, forse troppo difficile da capire per una bambina tanto piccola. Guardò ancora sua madre, bella e fiera, l'unica donna amata da suo padre. Chissà ora egli dov'era. Troppe domande, poche risposte.
Si fece forza. Doveva comportarsi bene.
“Prometto solo se tu prometti di venire a prendermi con papà.”
Lo disse in un tono incrinato e forse troppo capriccioso, ma sua madre sembrò non notarlo. Fece un altro di quei sorrisi e le diede un morbido bacio sulla guancia.
“Te lo prometto Garhea, fosse l'ultima cosa che faccio.”
La vecchia donna fece nuovamente capolino alla porta. Con passo lento e strascicato arrivò fino alla bambina e le pose una mano rugosa sulla piccola spalla.
Guardò sua madre e lei di rimando guardò la vecchia.
Non si dissero nulla, solo sguardi: quello inespressivo della donna e quello di sua madre, che a stento riusciva a fare altrettanto. Garhea ormai poteva ben leggere la tristezza sul volto della persona che più amava; colei che l'aveva messa al mondo.
Alla fine la donna si voltò e con un passo veloce fece ritorno al proprio destriero nero. Qualche movimento e si ritrovò già in sella, pronta a partire. Garhea provò a raggiungerla ancora una volta ma la vecchia continuò a mantenere la presa sulla spalla senza tuttavia farle male.
“Madre!”
E sua madre, la sua bella Leonessa, si voltò, forse sorpresa da quell'appellativo mai usato dalla bambina.
“Hai promesso madre!”
Fu l'unica cosa che riuscì a dire tra tutte le lacrime ormai scese. Forse ne vide una pure sul quel volto fiero, ma era troppo lontana per esserne sicura. La donna voltò il cavallo verso il sentiero appena percorso. Le sorrise.
“Ho promesso, sì...”
Fece per partire ma stavolta fu la vecchia a parlare.
“...Shair.”
E sua madre si voltò ancora una volta.
Un'ultima, sola volta.
“...Stai attenta.”
E anche all'anziana riservò uno sguardo ormai carico di tristezza.
Annuì con un solo e secco movimento del capo.
Garhea non riuscì a guardare la risposta della vecchia ma suppose fosse identica a quella della donna. Uno sguardo e un cenno con la testa.
Dopo quel breve momento, Shair spronò il destriero e partì al galoppo lungo il sentiero coperto di neve.
Quella fu l'ultima volta che Garhea vide sua madre.
Un puntino nero scomparire in uno sfondo completamente bianco.

sabato 4 febbraio 2012

Leith II

Poi lo vide.
Improvvisamente, come il fulmine che squarcia il cielo.
Una macchia nera in quel dipinto bianco, quasi fosse un errore di un pittore troppo distratto.
Avanzava a cavallo di un destriero morello dal passo lento, tranquillo, indifferente.
Ancora lontana, era difficile definire con chiarezza l'identità di quella figura misteriosa.
Uno straniero probabilmente, o un messaggero.
Ipotesi che vennero smentite non appena la figura cominciò ad avvicinarsi alle mura. Il primo soldato ad accorgersi del nuovo arrivò cominciò a sbraitare come un indemoniato seguito poi da tutti gli altri. Il corno venne suonato e le porte immediatamente aperte.
Non era un messaggero o, perlomeno, lo era in parte.
Comprese chi fosse non appena fece varcare la soglia al proprio animale, così possente questo da rendere piccole quelle porte in vero titaniche.
Il messaggero, il nemico, il cavaliere, il comandante. Tante erano le sue funzioni, tante quanto le imprese da lui compiute che, se da una parte non vantavano di clemenza, incutevano dall'altra un reverenziale rispetto tra tutto il popolo di quelle terre.
Il Toro Nero. L'Ombra. Tanti anche i soprannomi e le leggende sul suo conto cantate dai menestrelli.
Uno solo, però, restava il nome datogli da un'anonima madre. Un nome che difficilmente veniva pronunciato.
Taurom.
Dopo l'iniziale trambusto era sceso un silenzio totale all'interno della fortezza. Tutti, dai soldati, ai mercanti, alle donne, ai bambini, avevano gli occhi puntati sul cavaliere.
Questi, dal canto suo, manteneva un atteggiamento distaccato, quasi non sentisse l'attenzione di quella massa tanto corposa e rimasta, comunque, a debita distanza.
Lei, dall'alto di quella finestra, faceva parte del gruppo di curiosi. Come molti aveva sentito parlare del comandante dell'esercito dell'Ovest, primo fra i primi, spalla destra di Morgan, sovrano nemico del regno. Sapeva della sua forza, delle sue eccellenti capacità militari, della cieca fiducia nei suoi uomini contraccambiata con altrettanto ardore...sapeva molte cose di lui.
Ma mai, prima d'ora, era riuscita a vederlo.
Iniziò presto uno studio morboso dell'intera figura.
Dunque era vero: Taurom aveva i capelli color argento. Non erano infatti né bianchi né grigi, piuttosto una via di mezzo che rendeva il colore simile al metallo delle spade. Dicevano i menestrelli che quel colore era, in realtà, una maledizione causatagli dalle troppe morti provocate: più uccideva, più quei capelli perdevano il colore naturale.
Il volto era quello di un uomo segnato dalle continue battaglie: serio, ombroso, segnato da una lunga cicatrice che partiva dall'occhio destro e scendeva fino al labbro, incurvandolo e rendendo probabilmente difficile anche un solo accenno di sorriso. Come sospettava, difficilmente quest'ultimo doveva essere spuntato sul volto di quel comandante in fondo non tanto anziano.
Gli occhi, ambrati come i suoi, restavano vigili e profondi come quelli del falco sulla preda. Nessuno, nonostante quel teorico disinteresse, sembrava sfuggirgli di vista. Fissava il vuoto eppure, al tempo stesso, sembrava controllare ciascuno dei presenti.
Persino lei sentiva trafiggersi da quello studio. Si avvicinò maggiormente alla finestra come se volesse in qualche modo osservare meglio quella figura cupa e affascinante al contempo.
Nero l'abbigliamento, nero come il mantello del suo morello. Un cavallo figlio della Foresta, lo si riconosceva da quei due grandi occhi color rubino e dalla stazza imponente, superiore a quella di qualsiasi altro cavallo. Come il cavaliere, anche l'animale manteneva una certa calma. Qualche volta sbuffava o batteva a terra uno zoccolo facendo istintivamente rabbrividire la maggior parte dei bambini presenti.
L'attesa del comandante non fu poi molto lunga. Erric, comandante delle truppe dell'Est nonché della reggia, lo accolse con un numeroso seguito. Il saluto tra i due eterni sfidanti fu freddo sbrigativo, lo stesso valse per le parole successive che si scambiarono.
Alla fine, proprio mentre Erric faceva segno a Taurom di seguirlo, ecco quest'ultimo spostare lo sguardo lì, sulla finestra della sua stanza.
Gli occhi del falco, nonostante la distanza, incrociarono i suoi trafiggendoli come un dardo appena scoccato. Una mossa azzardata anzi, inaspettata, che quasi la paralizzò.
L'aveva vista. Sapeva della sua presenza.
Nonostante lo stupore, ella ricambiò lo sguardo con altrettanta fierezza. Sapeva di possedere, a differenza della debole sorella, un carattere forte e volitivo. Probabilmente era proprio quest'ultimo la causa di così tanto dolore nei confronti di quel destino già programmato. Un carattere degno di un soldato imprigionato in stupidi ma imbattibili doveri.
Fu lo sguardo più lungo e più bello della sua vita.
Uno sguardo che poteva finalmente definirsi tale.
Profondo, serio, attento. Interessato. Forse, ma qui probabilmente azzardava, quasi curioso.
Non durò molto in realtà; l'interesse di Taurom svanì qualche secondo dopo. Si voltò rapidamente e spronò il cavallo che, quasi annoiato, iniziò ad avanzare seguendo la fila dei suoi presunti consanguinei.
Horn, re dell'Est, li aspettava nella sala reale assieme al fratello per discutere di chissà quali affari. L'arrivo di Taurom, visto il trambusto, era probabilmente inaspettato. Solitamente il nemico a corte significava una sola cosa: tregua momentanea o, nel migliore dei casi, pace. In quel caso, vista la cieca furia di Morgan, si trattava probabilmente della prima ipotesi.
Dopo l'uscita di Taurom la gente aveva iniziato a discutere concitatamente in merito mantenendo tuttavia un tono basso, quasi temessero il non avverarsi di quella buona nuova.
C'era anche chi guardava verso quella finestra che tanto aveva attratto l'interesse del comandante senza tuttavia trovare nulla.
Lei, infatti, era già sparita.

venerdì 3 febbraio 2012

Leith I

Era una fredda giornata d'inverno, una di quelle in cui il gelo sembra intenzionato a toglierti il respiro con quelle sue carezze letali.
Lei, però, quel gelo non lo sentiva affatto.
Stava lì, rinchiusa tra quelle mura come se fosse un fiore troppo delicato da esporre a un clima tanto avverso. Il corpo di donna dalle forme ormai sviluppate era accuratamente nascosto da vesti e sottovesti dannatamente pesanti e fastidiose che rendevano però regale e imponente la sua già esile figura. A condire il tutto vi era poi un orribile pellicciotto grigio sulle spalle, regalo di uno dei tanti signori di quelle terre a lei tanto avverse.
Quanto avrebbe voluto tornare nella propria terra per gioire delle meraviglie continue che essa offriva! In estate le cicale componevano canti melodiosi, in primavera si sentiva ovunque il profumo degli alberi in fiore, in inverno i grandi pini sussurravano ninnananne alimentati dal vento e, in autunno, le foglie ricoprivano la terra rendendo morbido ogni passo.
Un sorriso a ricordare quelle gioie passate, poi, più nulla.
L'infanzia era finita e lei, come sua sorella, sapeva bene di dover svolgere il compito affidatole da chissà quale destino: sposarsi. Nessun amore a condire quell'unione, solo mero interesse economico.
Lo sapeva, lo leggeva sin troppo bene negli occhi scuri del padre che tanto rispettava e in quelli spenti di sua madre, vittima di un similare destino.
Pensava spesso a loro, genitori che le avevano dato la vita, chiedendosi ogni volta se, alla fine, l'amore aveva trionfato nonostante i caratteri tanto opposti.
Sapeva bene la risposta.
Guardò ancora una volta fuori dalla grande finestra: i soldati pattugliavano le mura costantemente e con devozione, quasi non sentissero quel gelo così letale.
Non riuscì, in realtà, a non provare invidia nei confronti di quegli uomini. Persone devote al sovrano, spesso in pericolo di vita ma, in fondo, libere.
Libere di fare qualsiasi scelta, libere di amare, libere di seguire le proprie aspirazioni.
Libere, insomma, di vivere.
Un sospiro lento e basso terminò quell'oceano di pensieri. Gli occhi d'ambra guardarono il panorama innevato oltre la reggia senza tuttavia soffermarsi su nulla in particolare. Anche un solo fiocco avrebbe potuto far tornare tristi ripensamenti.
Avrebbe adempiuto al suo dovere. Avrebbe sposato l'uomo sceltole, lo avrebbe rispettato e amato con devozione donandogli figli forti e sani. Questo era il suo scopo, il suo destino.
Sarebbe andata in moglie al fratello del re, un uomo forte e temuto per il suo grande potere. Tutti aspettavano con ansia la futura cerimonia; nessuno parlava d'altro. Si tessevano lodi sulla bellezza della sposa e sulla grandezza di colui che sarebbe presto diventato suo marito.
Nessuna voce contraria.
Nessuna.
Solo la sua, troppo debole e insignificante per essere udita.
Altro sospiro, altro pensiero bruciato.
Non era quello il momento di dolersi.

mercoledì 1 febbraio 2012

L'attrice

Fuori nevica da due giorni e tutti parlano di freddo siberiano.
Prende cappotto, sciarpa, guanti, stivaletti imbottiti, cappellino di lana. Si guarda allo specchio non trovando tuttavia il suo volto. Al suo posto c'è uno sguardo perso, vuoto; due occhi segnati da occhiaie bluastre che contrastano con lo sfondo giallognolo della pelle.
Farà pur freddo ma deve uscire e porre finalmente fine ai suoi astratti arresti domiciliari.
Lo studio, per un giorno, aspetterà pazientemente il suo ritorno.
Già li vede i grandi del passato guardarla con aria avvilita: Garibaldi, Cesare, Napoleone...tutti scuotono la testa borbottando qualcosa circa la sua negligenza.
Regala uno sguardo desolato al libro e, via, s'incammina verso quell'improvvisata e decantata Siberia urbana.
Il primo passo, quello dentro-fuori casa, è sempre il più difficile. A volte le piace osservare lo sguardo delle persone intente a fare questa grande mossa: c'è chi fa un sospiro, chi si getta letteralmente nella mischia, chi tentenna sistemandosi il cappotto, chi cerca gradualmente di entrare in contatto con il mondo. L'espressione, il più delle volte, resta schifata, come se nessuno volesse varcare quel limite invisibile e addentrarsi nella giungla selvaggia.
Ci prova pure lei riuscendovi senza troppi indugi. La neve scende continua e rapida, quasi i fiocchi volessero gareggiare tra loro per guadagnarsi il primo posto sul cemento.
Il freddo si sente, ma non è poi tutta questa tortura: lo assapora inspirandolo a pieni polmoni, rendendosi presto conto che il vero gelo era in realtà rinchiuso là, nel suo presunto nido domestico da tempo capitale di ipocrisia e indifferenza.
Un nido, dunque, che nemmeno si può definire tale.
Genitori che non si amano, fratelli che non si considerano. Eppure, là dentro, tutti continuiamo a recitare la parte della famiglia felice e spensierata. L'ipocrisia è rimasta l'unica amica capace di mantenerli ancora uniti. Cade lei, crolla la famiglia.
È un compito difficile quello dell'attore e dell'attrice, non ci piove. Tutti sanno tutto ma nessuno deve dire niente di vero, perché darebbe solo fastidio e causerebbe troppi guai a tutti. Poi c'è pure quello che sa solo in parte, quello che immagina e quello, infine, che non sa proprio nulla e che si ritrova coinvolto in questo macabro gioco destinato a ripetersi per chissà quanti anni ancora.
L'attrice esce dalla dimora, ecco dov'eravamo rimasti.
Si sistema il cappotto dopo quel rapido incontro con l'inverno e prende la prima strada che vede. Non ha una meta precisa; a dire il vero non l'ha mai avuta. Tira dritto stavolta, puntando gli occhi verso il basso e calpestando la fanghiglia rimasta nelle strade non pulite. È quasi divertente per lei che ancora non aveva sentito quel candido manto. Non è ancora riuscita a toccarlo, però.
Provvede in poco tempo: la mano finisce sul cofano innevato della prima auto che incontra. È pieno, pienissimo di neve. La prende tra le dita, l'annusa, la sfiora con il naso, sorride. Così l'attrice saluta quel meraviglioso e raro dono naturale.
Eccola ora correre all'improvviso: dunque è il tram il suo destriero. Lo raggiunge dopo aver evitato le automobili in corsa e, in breve, sale.
Il caldo la pervade: allora esiste ancora. È riuscita a trovarlo lì, sopra quel mezzo puzzolente e rumoroso, sempre pieno di gente dai mille odori. Poteva andare peggio.
Si siede sistemandosi un'ultima volta il cappotto e...niente. Aspetta. Il tram ormai è partito con il suo solito cigolio stanco, ma lei sembra non preoccuparsene. Non ascolta nemmeno la voce meccanica che annuncia le fermate; probabilmente non è il momento.
Gli occhi sono solo puntati sul finestrino attratti da quell'improvviso e meraviglioso panorama innevato. Vedere la città ricoprirsi di bianco è sempre un'emozione unica per tutti. Non è la sola a osservare l'ambiente attorno; buona parte dei presenti lo fa, chi con più, chi con minor attenzione.
Tutti, in un solo istante, sembrano essere tornati bambini.
Il viaggio continua.
Lei osserva e immagina, come fa sempre del resto quando si tratta di viaggiare.
Cosa immagina, ahimè, a noi non è dato sapere. C'è chi la guarda incuriosito da quei sorrisetti sfuggenti che talvolta riaffiorano sul suo viso pallido, chi si domanda cosa stia mai pensando quella ragazza che continua a mordersi continuamente il labbro, quasi dubbiosa.
E chi lo sa.
Passano i secondi, poi i minuti, poi addirittura un'ora.
La gente scende, sale e scende ancora.
Piano piano il tram si svuota avvisando silenziosamente i presenti di essere ormai prossimo al capolinea.
Eppure lei è ancora lì.
Nonostante i pensieri e la neve è riuscita anche a memorizzare quanti e quali personaggi sono scesi incamminandosi per chissà quale via e quanti invece sono rimasti con lei in quello strano viaggio. Non sono in molti: c'è il filippino annoiato e la signora seduta dietro di lei che non ha ancora smesso di parlare al telefono. C'è persino il barbone, ora placidamente addormentato sopra uno dei tanti sedili.
Tre amici. Gli altri sono tutti volti nuovi.
Fermata numero boh. Il filippino scende dandole una silenziosa occhiata simile a un ultimo saluto. Lei ricambia e lo guarda allontanarsi tra le vie di quella caotica città.
Poi, eccola alzarsi. È il suo turno. La signora scende con lei, il barbone invece continua a dormire approfittando di quel calore cercato così a lungo.
Beato lui. Anche lei avrebbe voluto addormentarsi su quel tram senza più preoccuparsi di nulla.
Iniziare tutto daccapo dimenticando la vita e i doveri passati.
Lasciare nella neve quella maschera diventata ormai fastidiosa e dannatamente pesante per una persona in fondo così fragile.
La signora prende la propria via abbandonandola silenziosamente.
È rimasta sola, persino il tram è partito di nuovo.
Lei e la neve.
Si guarda attorno rendendosi conto di essere in una zona sconosciuta della grande città; l'ideale per perdersi e sparire completamente dalla scena. Non ha avvisato nessuno di quella sua dipartita, ha semplicemente salutato il fratello con un cenno del capo. Lui non ha chiesto niente e lei, di rimando, è stata zitta. Come sempre.
Muove qualche passo avanti e indietro. I fiocchi di neve hanno già ricoperto il suo giubbotto e il suo cappello inumidendoli del tutto.
Passano i minuti.
La libertà la chiama in quel vortice di neve e freddo, ma troppa è la paura e tanti sono ancora i doveri da svolgere sotto quella vecchia maschera.
Un sospiro a chiudere tutti quei ragionamenti complicati, poi, eccola tornare indietro.
Il tram del ritorno è appena arrivato.

giovedì 22 settembre 2011

Matricola all'attacco

Devo aggiornare questo stramaledetto blog.
Buongiorno utopici lettori! Siccome non avevo nulla da fare, ho deciso di raccontarvi la mia fantastica avventura di stamattina: il mio primo giorno all'università!! (in sottofondo servirebbe un urlo isterico-euforico da ragazza americana con tanto di OOOOOHH MY GOOOD!!).
Ebbene sì, oggi è stato il mio primo giorno da matricola.
Come dissi precedentemente, mi sono iscritta alla facoltà di Storia.
Numero aperto, niente fottutissimi test, nessun corso di recupero...insomma, mentre altri miei amici piangevano come matti e tentavano di passare nelle varie università, io già gli sventolavo soddisfatta il libretto sotto il naso (da brava infame).
Ma torniamo a oggi.
Ore 10.30, presentazione ufficiale del corso.
Arrivo puntuale, mi regalano il solito volantino della lotta operaia-abbasso-i-potenti-bandiera-rossa-alla-riscossa-potere-ai-deboli-olè-olè , stranamente non mi perdo tra le mille aule del posto e, nel giro di qualche minuto, eccomi nella minacciosa aula 422.
….Nà topaia.
I più erano in piedi, tutti spiattellati tra di loro tipo piccioni sul filo elettrico. Gli sguardi guizzavano da una parte all'altra, come se aspettassero un segno per scappare o urlare o...bah, fare qualcosa.
Ricordo che la prima cosa che ho sentito è stato un tremendo odore di lacca misto a schiuma per capelli (insomma, Grease non è mai morto). La seconda cosa che ho visto, invece, è stata l'immensa (per non dire esagerata) quantità di pubblico maschile.
Ecco sfondato il luogo comune del: 'la Storia piace solo alle donne'.
Eravamo si e no 10 femmine e circa 100 e passa maschi. Orca loca.
Dopo essere sgusciata via da quei corpi puzzolenti di testosterone, mi sono rifugiata vicino ad un condizionatore (cagotto sto arrivando!)...ovviamente in piedi. Vicino a me, due amichette del cuore intente a osservare i centauri poco distanti.
Come loro, anche la fidanzatissima sottoscritta ha tenuto un breve sopralluogo dei presenti, individuando circa 20 tipi passabili (gli altri sembravano sbucati da un gdr o da un libro di fisica).
Poi il mio sguardo è ricaduto sull'unica sedia libera, perdipiù vicino a una ragazza. Ora, i casi erano due: o l'individuo in questione era una pericolosissima X-Men, o i presenti attorno a me erano troppo impediti per formulare la fatidica domanda: “Scusa...è libero questo posto?”
Regalando un'occhiataccia perplessa ai cammelli vicino a me, mi sono lanciata su quella sedia.
Ovviamente con la sedia era inclusa l'amicizia con la ragazza lì vicino, molto simpatica e gentile (niente X-Men, dunque).
Proprio mentre stavo per tracciare a voce alta (troppo) un parere sui miei futuri compagni di corso, ecco iniziare la spiegazione da parte dei professori.
Mentre ascoltavo parlare i quattro geroglifici, il mio sguardo continuava (come quello di molti altri) a studiare i presenti.
Nel giro di un minuto ho individuato:
-2 nonni (nonni per davvero, baldi anzianotti decisi a laurearsi quando potevano benissimo diventare materia di studio...lo so, sono perfida. Cattivo Dobby!)
-1 pesce (un ragazzo che continuava a guardarmi con una faccia da pesce inquinato)
-1 muta (povera ragazza sedutasi vicino a me non appena è riaffiorato un secondo posto...ho provato ad attaccar bottone ma nulla da fare, Anna Frank preferiva rifugiarsi nel quaderno prendi appunti)
-1 modello nano (bel ragazzo sì, ma poco più alto di cucciolo)
-1 Apocalyptica (stessi capelli, stesso stile, mancava solo la viola)
Eeeehhh...basta direi. O almeno, ce ne sarebbero molti altri ma ormai la mia memoria da Dory ha cancellato tutto.
Salvo la topaia, i troppi uomini e le poche ragazze...è stata una presentazione interessante. Certo, non ho capito un cazzo di quello che dovrò fare (ho tentato di spremere la mia nuova amica, ma nemmeno lei sembrava aver compreso molto la cosa) e, pertanto, catturerò la prima tutor o veterana del corso e la vivisezionerò...credo di potercela fare.
Ho già ideato un programma di studi così perfetto da risultare utopico.

martedì 26 luglio 2011

Il Futuro di Monny M.

Ecco un'altra riflessione che mi è appena passata per la testa e che vale la pena di scrivere (possiamo definire Luglio un mese creativo per questo blog sfigato? MAH!).
Le mie considerazioni circa il mio imminente futuro universitario.
Già, oggi mi sono iscritta alla Facoltà di Lettere e Filosofia, indirizzo Storia.
Mi è sempre piaciuta la storia, sapete? A dire il vero nutro un interesse particolare nei confronti della Preistoria e dell'Età Ellenistica in generale. Fin da piccola amavo leggere le storie della mitologia greca e guardare la Macchina del Tempo con i suoi Australopitechi, i nostri bisbisbisbisbis...insomma, i nostri antenati. Mi divertivo a giocare al divino Achille e a sfottere Paride ogni volta che scoccava quella maledetta freccia (d'accordo, ero piuttosto anormale...non che ora non lo sia più, eh?).
Comunque sia, proprio per queste mie passioni ho deciso di scegliere il corso di storia.
Se la cosa mi incuriosisce da una parte, è anche vero che dall'altra mi deprime e basta.
Certo, voglio laurearmi da brava Lisa Simpson per rendere felici i miei genitori e sentimi realizzata nella vita, ma è anche vero che l'idea di studiare per altri cinque anni (visto che con tre, al giorno d'oggi, non vai da nessuna parte) e finire a svolgere (forse) un lavoro assolutamente diverso da quello immaginato (come ben succede, nel nostro Bel Paese) di certo non mi aiuta.
In Italia funziona così, purtroppo: i più disoccupati restano i laureati (quelli in lettere poi, fanno semplicemente pena). Forse sono io ad essere eccessivamente pessimista (probabilmente Schopenauer fu un mio lontano parente), ma la situazione generale per ora resta questa e non sembra destinata a cambiare.
Senza contare che, per quanto riguarda il mio futuro post-Università, a dire il vero non ho pensato niente in merito. O almeno, ho pensato, ma come spesso mi succede i miei pensieri ultra-eccentrici non sono propriamente collegati con il mondo del fattibile.
Innanzitutto, voglio scappare dall'Italia. Fosse per me, lo farei anche ora, senza quella maledetta Università che invece mi frega solo tempo prezioso. Andrei prima in Europa, a svolgere lavoretti per negati in inglese tipo baby-sitter super affiancata da un tutor italiano o, altrimenti, volontariato in tutto il mondo (vista la mia misantropia, opterei per un volontariato ambientale). Successivamente, se la fama mi sorride, andrei a vivere per sempre in Australia: lì il lavoro non manca, la gente è simpatica e la paga è buona. Ho letto centinaia di blog sul continente, e posso affermare che nessuno è tornato deluso (a dire il vero, proprio per questo, pochissimi italiani sono tornati qui a marcire).
Se venissi poi pervasa da sensi di colpa troppo potenti, tornerei in Italia e farei uno dei miei lavori preferiti: la libraia al Libraccio (quante l). Lo so, affermazioni così ti lasciano di stucco. Ma, cazzo, è il mio lavoro! Io adoro i libri da quando ero un piccolo embrione (ok, forse un poco dopo); il mio desiderio è sempre stato quello di avere a che fare con loro per tutta la vita (d'accordo, quando non conoscevo ancora bene l'odioso mondo delle scienze volevo andare a fare la biologa marina o ritirarmi in Ruanda a studiare i Gorilla di Montagna).
Se i libri sono poi vecchi e usati, la cosa mi emoziona ancora di più. Mi piace passare intere giornate in quella libreria, a sfogliare libri abbandonati dai loro proprietari e che ingialliscono sempre di più tra gli scaffali. Visto il loro prezzo stracciato di solito ne compro a bizzeffe, finendo la paghetta faticosamente guadagnata (altre volte, invece, sfrutto la madre e faccio prima).
Mi piace comprarli, metterli nella mia teorica libreria, e guardali 'fraternizzare' con gli altri libri, forse già conosciuti al Libraccio, forse no.
Il pensiero di stare lì tutto il giorno, anzi, tutta la vita a sfacchinare e a sollevare volumi su volumi, non mi spaventa affatto. Sarebbe davvero un sogno bellissimo. Certo, forse avere una libreria di libri usati solo mia sarebbe ancora meglio, ma mi accontento anche di quanto detto.
Ah! Contemporaneamente tenterei di sviluppare al meglio l'hobby tanto amato della fotografia: anche l'idea di diventare fotoreporter mi elettrizza parecchio!
Eh già, che cazzo ci vado a fare all'Università lo sa solo il mio gatto.
Solo che lui è famoso per la sua stronzaggine, e si ostina quindi a non volermelo dire.